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Esperienze

Possibilità di gioco in tempo reale

Posted: 22/10/2017 alle 5:44 pm   /   by   /   comments (0)

Sono nata a metà degli anni 80. La mia infanzia l’ho passata a giocare, oltre che ai giochi analogici classici (mamma e figlia, maestre, ruba bandiera, barbie, palla avvelenata, pegno verità, Monopoli, l’allegro chirurgo e chi più ne ha più ne metta), ai video giochi, nella consolle portatile che, oltre a consumare quintali di pile alcaline, creavano una vera e propria mania. Uno su tutti, il Game boy della Nintendo, arrivato in Italia nel 1990. Non era mio, era di mia sorella maggiore che me lo faceva usare, sì, ma ad un costo elevatissimo (vi lascio immaginare).
In generale, ogni gioco per il Game boy era strutturato in livelli, ognuno bloccato da un mostro che andava affrontato. Sconfitto il mostro, si sbloccava il livello successivo e l’avventura di gioco continuava.
Non di rado, ci sono stati mostri -che non riuscivo a sconfiggere per settimane- che mi costringevano a chiedere l’aiuto di mia sorella per affrontarli. Quando accettava, (e accettava sempre perché la lusingavano moltissimo la mia ammissione d’inferiorità e la mia richiesta d’aiuto), non era scontato che lei ci riuscisse, quindi io, per mio interesse sicuramente, mi ritrovavo a tifare per lei, a soffrire quando le cose si mettevano male e ad abbracciarla e ringraziarla quando si mettevano bene.

Il Game boy è stato solo il primo video gioco presente in casa, poi sono arrivati quelli per il computer e lì è cambiato qualcosa. In particolare, ce n’era uno -senza mostri- che simulava e riproduceva la vita di persone in un’allegra cittadina, si poteva giocare per anni senza arrivare mai ad una conclusione.
C’era un solo ostacolo: il protagonista del gioco, per “sopravvivere”, doveva lavorare, guadagnare e così poteva permettersi beni per la propria sussistenza e quella dei suoi cari. Se al lavoro ci andava affamato o nervoso perché non aveva dormito, veniva licenziato e, da lì, era la fine: il personaggio pian piano moriva.

In un certo senso, il gioco aveva un senso, educativo, conformista forse, ma un senso c’era. Finché mia sorella non scoprì, via web, i codici per sbloccare soldi a palate per i personaggi del videogioco, trasformandolo così in un giocare alla noiosa vita -senza obiettivi- di personaggi ricchi sfondati che non avevano bisogno di lavorare, che non provavano mai emozioni negative e morivano solo di vecchiaia.
Pian piano ho imparato anche io a trovare in rete codici per sbloccare i videogiochi, non ho più avuto bisogno di mia sorella. Giocare è diventata un’attività solitaria, noiosa e quindi ho smesso di giocare.

Giocare, infatti, assumeva un senso diverso, non era più una sfida e una continua ricerca di rapporto con altri, tipo mia sorella, per il raggiungimento degli obiettivi di gioco. Si era trasformato in una perdita di tempo, una sottrazione di interesse per quelle componenti della vita reale, utili alla “vita” digitale, che avevano caratterizzato i tempi del Game boy.
Non mi stupisce che i giochi diffusi in questo periodo storico si connotino sempre più come un addestramento di abilità individuali, si pensi ai vari brain training. Per non parlare dei vari “Gran Theft Auto” (GTA), con totale libertà d’azione concessa al giocatore (possibilità di andare con una prostituta, portarla in un posto appartato -per esempio, un vicolo- e avere un rapporto con lei, ma si possono inoltre uccidere i pedoni, commettere rapine, rubare le auto o uccidere i poliziotti), dove ciò che viene premiato è la distruzione dell’altro, la superiorità di uno a spese dell’altro.

Non ho nessun interesse a “fare la morale” e a dire quanto sia diseducativo un gioco rispetto ad un altro, tralascio volutamente anche una riflessione sul gioco d’azzardo on line, che forse sarebbe pertinente, ma ora vorrei portare la mia riflessione da un’altra parte.
Mi chiedo cosa se ne ricavi da questo giocare: dove si trovano le risorse per raggiungere gli obiettivi del gioco?
Mi viene da dire che le risorse non sono più nella vita reale, nei rapporti famigliari o amicali, ma sono altrove, in un mare digitale immenso e anonimo, dove niente ha un costo e dove tutto si può avere in cambio di niente.
Mi sembra interessante provare a pensare alle esperienze di gioco in un senso simbolico, più che concreto. Faccio questo -per esempio- nel lavoro con i bambini, dove utilizzo volutamente giochi analogici nei quali ogni giocatore può essere interpellato, minacciato, graziato, sfidato, e dove delle scelte di gioco si può parlare, ci può confrontare.

Ogni partita -persa o vinta- assume un senso nel rapporto terapeutico, e non solo.
I modi per vincere possono essere interpretati e discussi. Assumono senso perché c’è un altro, un terzo tra noi e il gioco, con il quale parlare di ciò che si fa o si potrebbe fare o si sarebbe voluto fare. Non c’è una soluzione, un meccanismo che sblocca la realtà una volta per tutte, ma un concordare e calibrare ogni volta nella propria esperienza. E, questo, è quanto di più reale ci sia.

Dott. Giulia Marchetti – Psicologa

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